Stalin, Il’in e Confucio contro l’Occidente collettivo

Il nuovo manifesto del regime: la raccolta di saggi del Consiglio di Sicurezza della Federazione russa
Michail Edel’štejn

Il nuovo manifesto del regime: la raccolta di saggi del Consiglio di Sicurezza della Federazione russa

È stata recentemente pubblicata una raccolta di saggi dei membri del Consiglio di Sicurezza della Federazione Russa, dal titolo “Per l’80º anniversario della Grande Vittoria”.

Il volume comprende 36 testi — uno per ciascun membro del Consiglio — secondo un principio che richiama da vicino quello descritto da Agatha Christie in Assassinio sull’Orient Express: ognuno ha lasciato il proprio segno. Alcuni dei saggi sono stati scritti tempo fa e già pubblicati in precedenza, altri sono stati composti appositamente per questa edizione. Nel loro insieme, danno vita a un unico testo che delinea in modo piuttosto nitido lo stato dell’attuale classe dirigente russa.

Com’è noto, da qualche tempo il discorso ufficiale russo non riesce a pronunciare una sola parola senza ricorrere a paralleli storici o, più propriamente, quasi-storici. I negoziati sono una nuova Jalta. Il processo ai “neonazisti” è un “Norimberga 2.0”. Al Forum giuridico di San Pietroburgo, il ministro della Giustizia Konstantin Čujčenko (membro del Consiglio di Sicurezza e, di conseguenza, uno degli autori della raccolta) ha parlato per due giorni consecutivi di Herzen e dei populisti, ha criticato l’eccessiva indulgenza dell’autocrazia, colpevole di non aver giustiziato tutti i decabristi e di non aver incarcerato Vera Zasulič, e ha concluso con soddisfazione: “Ovviamente, bisogna continuare a studiare tutta la storia russa attraverso la lente dell’ingerenza e dell’influenza straniera”. Sarebbe stato dunque più onesto intitolare la raccolta del Consiglio di Sicurezza “Ossessionati dalla Z-storia”.

Uno dopo l’altro, i membri del Consiglio riferiscono ciò che hanno appreso dai nonni e bisnonni, quale esperienza hanno tratto dall’URSS degli anni Quaranta. Oggi, come allora, dice uno, sosteniamo i veterani con aiuti economici, proteggiamo la memoria storica con strumenti legislativi, combattiamo i traditori che diffondono notizie false. Oggi, come allora, aggiunge un altro, mobilitiamo le risorse per la vittoria, impariamo a concentrarci sulle priorità, elaboriamo un bilancio equilibrato. E tutti all’unisono si rassicurano a vicenda: “È necessario tornare ancora e ancora a quell’esperienza”.

Mosca, la Siberia, gli Urali riferiscono all’unisono: durante la Grande Guerra Patriottica abbiamo dato al fronte tutto ciò che potevamo e oggi continuiamo a farlo. Nel contempo, la storia viene interpretata in maniera completamente antistorica: essa appare statica, immobile, popolata da nemici eterni e minacce perenni.

Il nemico eterno della Russia è “l’Occidente collettivo: gli Stati Uniti, il Regno Unito e gli altri paesi della ‘parte anglosassone’ del pianeta, insieme ai loro vassalli e complici”. Di secolo in secolo, l’Occidente si dedica sempre alla stessa attività: “ripesca dagli archivi polverosi i manuali della russofobia” e, “innalzando la bandiera della russofobia a vette mai viste prima”, lancia una “crociata” contro la Rus’. La Rus’, com’è ovvio, respinge l’assalto e costringe l’Occidente a ritirarsi per leccarsi le ferite. Fino alla prossima spedizione. Ma la colpa principale delle “élites anglosassoni” nei confronti della Russia e del mondo intero risiede nel fatto che sono stati proprio gli “anglosassoni a creare un ambiente fertile e un sostegno per il nazismo” e che oggi sono “tornati a sostenere apertamente l’ideologia fascista e nazista in Europa”.

L’idea che il nazismo sia nato dallo spirito della civiltà anglosassone è variamente articolata lungo tutta la raccolta: “I dirigenti sovietici non dimenticavano che la patria del fascismo è ciò che oggi chiamiamo Occidente, e che ciò non è affatto casuale”; “Le principali idee del nazismo, per la loro origine, non sono affatto germaniche né ariane. Il ruolo degli anglosassoni nella genesi e nell’affermazione del nazionalsocialismo in Germania è immenso”. Vengono indicati anche dei colpevoli concreti: Cromwell e Disraeli (il quale, come sottolinea premurosamente Dmitrij Medvedev, era “caratteristicamente — un ebreo di etnia”).

È evidente che, se una simile costruzione concettuale venisse presentata come lavoro di laurea triennale, crollerebbe nei primi cinque minuti di discussione come la capanna del porcellino sotto il soffio del lupo. Peraltro, i problemi comincerebbero già prima della discussione, in fase di verifica delle fonti e dei plagi, come ha dimostrato lo storico Igor’ Petrov nell’analizzare l’articolo di Medvedev. In generale, proprio a casi come questo si applica il proverbio sul lanciare pietre quando si abita in una casa di vetro. Quanto poi alla fotografia della visita di Ribbentrop a Londra nel 1936, presentata come prova delle origini anglosassoni del nazismo, è addirittura imbarazzante commentarla. Come se non ricordassimo dove fosse volato lo stesso Ribbentrop tre anni più tardi.

In generale, la tentazione permanente, leggendo gli scritti o ascoltando gli interventi dei membri della leadership russa, è quella di indicare con il dito le citazioni false attribuite a Bismarck, di alzare gli occhi al cielo e di ripetere con la voce di Zadornov: “Ma quanto sono stupidi!”. Tuttavia, questa è una strada sbagliata, un vicolo cieco. Ostacola infatti una comprensione adeguata di ciò che si legge o si ascolta.

Naturalmente, un’analisi seria del volume del Consiglio di Sicurezza dal punto di vista storico è un’impresa priva di senso. Non si tratta affatto di una ricerca storica, bensì di una sorta di manifesto ideologico. E il fatto che i manifesti ideologici nel nostro paese vengano redatti con abbondanti riferimenti quasi-storici e legati a ricorrenze solenni — ecco, questo è il linguaggio scelto dalle autorità russe per comunicare con il proprio popolo e con il mondo, su impulso di un illustre storico dilettante.

E come manifesto, questo corposo volume di 500 pagine merita senz’altro una lettura. Almeno perché da esso si ricava una consapevolezza chiara: le polemiche sull’aeroporto “Stalingrado” e sull’altorilievo con Stalin alla stazione della metropolitana di Mosca Taganskaja sono ormai superate. Stalin, nella Russia odierna, non solo è pienamente riabilitato, ma è del tutto accreditato come modello di riferimento.

Tra i meriti che vengono attribuiti a Stalin non vi è soltanto la vittoria nella guerra, ma anche il passaggio dall’internazionalismo leninista a un “patriottismo” di impronta statalista, nonché l’amicizia instaurata nel dopoguerra con la Chiesa ortodossa russa (e chi, prima della guerra, l’aveva perseguitata?), e in generale una saggia guida del paese protrattasi per molte decine d’anni.

Espressioni del tipo: «la parte più lungimirante della dirigenza del VKP(b), e in primo luogo il segretario generale del Comitato Centrale del partito I.V. Stalin…» oppure «profetiche furono anche le parole pronunciate da I.V. Stalin…» vengono oggi pronunciate dai leader russi senza il minimo accenno di dubbio. Si propone di trarre insegnamento dall’URSS staliniana nell’elaborazione e nella promozione dell’ideologia e di apprendere da essa la coerenza nel proporsi come potenza mondiale.

È evidente che da qui il passo verso il teorema “Putin è lo Stalin di oggi” è brevissimo — e questo assunto, di fatto, viene espresso quasi alla lettera: «L’istituto del capo, del leader nazionale, non è sancito nelle costituzioni della maggior parte degli Stati, ma è una realtà presente nella vita politica di molti paesi. Come ha dimostrato l’esperienza dell’URSS e di altri Stati, tutto dipende dalla situazione concreta e dal talento politico e gestionale, dall’intelletto, dalle qualità morali e spirituali della persona che la storia ha posto in tale ruolo»; «L’attività del Comitato di Difesa dello Stato non ha perso il suo significato nemmeno oggi. In caso di necessità, la Federazione Russa può fare riferimento all’esperienza di una gestione centralizzata in condizioni di crisi, quando tutto il potere è rigidamente concentrato nelle mani del Comandante Supremo».

Nel contributo di Jurij Čajka, rappresentante plenipotenziario del Presidente della Federazione Russa nel Distretto Federale del Caucaso del Nord, ad esempio, tutti i popoli del Caucaso si uniscono durante la guerra in un impeto comune contro il nemico collettivo. E poi? E che cosa accade dopo? Le deportazioni? Quali deportazioni? Aspettate, vado a cercare il significato nel dizionario dei termini stranieri.

Ancora più interessante è il quadro della politica estera delineato dagli autori della raccolta. Per quanto riguarda gli anglosassoni, tutto è chiaro: sono i principali antagonisti. Tuttavia, non è loro dedicato alcun saggio specifico: la loro presenza è distribuita in modo uniforme, come un velo sottile, su tutto il volume. Gli articoli esplicitamente rivolti agli affari internazionali sono quattro, e due di essi trattano del Giappone, gli altri due della Finlandia.

Quest’ultima, si scopre, sarebbe stata da sempre un centro di russofobia e, durante la Seconda guerra mondiale, uno degli attori principali del genocidio del popolo sovietico. Dopo la guerra, i finlandesi sarebbero stati perdonati e, per favorire l’amicizia sovietico-finlandese, i documenti pertinenti sarebbero stati accuratamente nascosti. «Tuttavia, oggi, su impulso di Washington e Londra, Helsinki sta facendo tutto il possibile per richiudere la “finestra sull’Europa” aperta da Pietro il Grande. Con mire revansciste, entra in alleanze antirusse, coltiva nuovi piani mostruosi per lo sterminio degli slavi e, in tale ottica, sostiene il regime neonazista di Kiev». «Washington, ponendo la Finlandia in uno stato di semi-vassallaggio, cerca di trasformarla in una nuova “anti-Russia” e di costringerla a sacrificare il proprio benessere per servire obiettivi geopolitici altrui».

La Finlandia è ormai considerata un agente particolarmente fidato degli anglosassoni proprio ai confini della Russia. Qualche anno fa, questo ruolo sarebbe stato attribuito alla Polonia o ai Paesi baltici, ma oggi è la Finlandia ad averlo assunto. E ciò è perfettamente in linea con quanto si sente dire, in conversazioni informali, da funzionari del Ministero degli Affari Esteri russo: dopo l’“ingresso a tradimento” nella NATO, la Finlandia — e in particolare il suo presidente Alexander Stubb (al quale la raccolta dedica ampio spazio) — è diventata oggetto di sentimenti particolarmente intensi da parte della dirigenza russa. Tra le altre cose, la nuova Finlandia “nordatlantica” viene considerata un ostacolo al dominio russo nell’Artico. E l’Artico, a quanto pare, è diventato oggetto di un’attenzione quasi reverenziale da parte del Cremlino.

A proposito dell’adesione della Finlandia alla NATO, vale la pena citare probabilmente il passaggio più grottesco dell’intera raccolta del Consiglio di Sicurezza. Il rappresentante del Presidente della Federazione Russa nel Distretto Federale Nordoccidentale, Aleksandr Gucan, si pone la seguente domanda: «Perché i finlandesi hanno abbandonato così facilmente e rapidamente la loro neutralità, a cui tenevano tanto?» Perché nel settembre 2021 il 51% dei finlandesi si dichiarava contrario all’adesione alla NATO, mentre già nel marzo 2022 il 62% si dichiarava favorevole, percentuale che da allora non ha fatto che crescere? Effettivamente, che cosa sarà mai accaduto in Europa tra settembre 2021 e marzo 2022, da indurre improvvisamente i finlandesi a desiderare in massa l’ingresso nella NATO? «La spiegazione va cercata nel passato storico del Paese», conclude Gucan. Sipario.

In sintesi, «il particolare pericolo rappresentato dalla condotta del Giappone consiste nel fatto che Tokyo si presenta come un pieno rappresentante del “mondo occidentale civilizzato e liberale”», contrapponendosi apertamente a paesi come Russia, Cina e Corea del Nord. Naturalmente, questi tre ultimi Stati vengono costantemente menzionati insieme, separati solo da virgole: «le preoccupazioni della Russia e della Cina…», «oggi Mosca, Pechino e Pyongyang osservano con grande inquietudine…» e così via.

Dunque, tutti gli Stati vengono suddivisi in due categorie: quelli che difendono la propria sovranità (ossia sostengono, o quantomeno non condannano, la politica della Russia), e quelli che si sono allineati con gli anglosassoni e seguono «nella scia della politica del cosiddetto mondo occidentale». Diventare «paladino dei valori liberali» e veicolo dell’influenza anglosassone in una determinata regione — non potrebbe accadere nulla di peggiore a uno Stato.

La scelta stessa dei paesi oggetto di critica è altamente indicativa. La Finlandia, che ha aderito alla NATO anziché mantenere «relazioni speciali» con la Russia e indebolire l’unità dell’“Occidente collettivo”; e il Giappone, agente di quest’ultimo in una regione di importanza cruciale per la Russia, fonte di attrito all’interno dell’asse russo-cinese-coreano. Gli anglosassoni, insomma, sono senz’altro i nemici. Ma a irritare non meno (se non di più) sono le loro avanguardie regionali fuori dal mondo anglosassone. Vassalli e complici — come è stato detto.

L’obiettivo supremo del potere appare piuttosto ambizioso: un radicale capovolgimento di rotta rispetto a Pietro il Grande. Non sono certo i finlandesi a chiudere la “finestra sull’Europa” — è la stessa Russia a sbatterla, con fragore, tra stridori e crepitii, coltivando il sogno che ciò sia per sempre. Per tre secoli (in realtà, anche più) siamo stati parte dell’Europa, e ora: basta, addio. Siamo una civiltà a sé stante, il cui principale polo di attrazione è il Sud-Est asiatico. Non a caso, il ministro Lavrov ha recentemente dichiarato che con l’Orda si può trovare un accordo, ma con l’Occidente no. E non è forse proprio per questo che Aleksandr Nevskij è tanto amato — perché incarna esattamente questo modello: combattere l’Occidente e inchinarsi all’Oriente?

È improbabile che tale progetto si realizzi, per fortuna, per la semplice ragione che, pur con tutte le sue specificità, la Russia resta un paese europeo. Ma più a lungo durerà questo attuale eurasiatismo, più sforzi occorreranno in futuro per riaprire la finestra di Pietro. Solo per oliare le cerniere arrugginite, servirà un’enorme quantità di lubrificante.Così come la Finlandia è divenuta l’agente degli anglosassoni nel Nord Europa, allo stesso modo il Giappone ricopre lo stesso ruolo nell’Estremo Oriente: «Essendo geograficamente e culturalmente un paese asiatico, il Giappone è istituzionalmente parte integrante dell’Occidente globale, avendo completamente assorbito i tratti politici ed economici degli Stati Uniti e dei paesi europei». Perfino nel capitolo dedicato ai bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki, si dedica quasi più spazio alla condanna del Giappone “americanizzato” di oggi che al ricordo dei crimini commessi dagli stessi statunitensi.

(Pubblicato su Novaja Gazeta del 26 maggio 2025 https://novayagazeta.ru/articles/2025/05/26/stalin-ilin-i-konfutsii-protiv-kollektivnogo-zapada)