Giovanni Cadioli

Il 9 maggio, anniversario della resa tedesca agli Alleati, si è tenuta sulla Piazza Rossa la consueta parata. Putin l’ha aperta affermando: “I nostri padri, nonni e bisnonni hanno salvato la Patria. E ci hanno lasciato in eredità il compito di difendere la Patria, di restare uniti e di difendere con fermezza i nostri interessi nazionali, la nostra storia millenaria, la nostra cultura e i nostri valori tradizionali, tutto ciò che ci è caro, che ci è sacro”. Queste parole racchiudono l’essenza del credo putiniano: un sistema ideologico eterogeneo, coercitivo e totalizzante, fondato sulla manipolazione della storia e sul controllo della memoria nazionale, piegate agli obiettivi del Cremlino.
In passato, il putinismo ha conosciuto anche fasi di apertura. Durante il tentativo di “reset” con gli Stati Uniti nel 2009, Putin condannò il Patto Molotov-Ribbentrop e Medvedev criticò le repressioni sovietiche. Oggi, invece, lo stesso Medvedev cita Stalin nelle fabbriche d’armi, minacciando di “distruggere” i traditori della Patria.
“Patria” è sinonimo di “Russia storica”, e Putin la identifica con i confini sovietici. Già da giovane, nel 1991, denunciava i bolscevichi per aver indebolito quello “Stato unitario che si chiamava Russia”, sancendo con la creazione dell’Urss, nel 1922, l’esistenza di singole Repubbliche, da lui definite “principati che prima non comparivano sulla mappa del mondo”. Lenin, così facendo, avrebbe posto una “mina” alle fondamenta dell’Urss. Putin ha ribadito questa tesi nel 2016 e il 21 febbraio 2022, quando l’ha utilizzata per giustificare l’imminente invasione dell’Ucraina.
Secondo questa visione, l’essenza della “Patria” sarebbe la continuità attraverso Impero, Urss e Federazione Russa di statalismo, conservatorismo e nazionalismo, proposti da Putin come “valori tradizionali”. Il discorso ovviamente omette sia discontinuità sia determinate permanenze. Putin, anticomunista e ammiratore del fascista russo Ivan Il’in, disprezza il bolscevismo e cancella quindi le radicali discontinuità che generò. Né si sofferma sulle continuità tra Russia sovietica e post-sovietica nei vertici militari e repressivi, o sulla sopravvivenza e il successivo arricchimento di molti funzionari sovietici, mentre 3,4 milioni di russi morivano prematuramente negli anni Novanta per l’effetto combinato dei problemi strutturali del sistema sovietico, del suo crollo e della “terapia shock” che generò un capitalismo di Stato cleptocratico e clientelare.
Il perno del credo putiniano è la gloriosa “difesa della Patria”, incarnata nella memoria della “Grande guerra patriottica”, quando l’Urss pagò la vittoria sull’Asse con 27 milioni di morti
Il perno del credo è la gloriosa “difesa della Patria”, incarnata nella memoria della “Grande guerra patriottica”, quando l’Urss pagò la vittoria sull’Asse con 27 milioni di morti. Oggi quel sacrificio viene strumentalizzato per denunciare il presunto “tradimento” occidentale legato all’allargamento della Nato verso Est – un’accusa che affonda le radici nei fraintendimenti dei negoziati sovietico-statunitensi dei primi anni Novanta e nelle rassicurazioni, vaghe e mai formalizzate, ricevute dai sovietici da più parti – e per legittimare l’aggressione all’Ucraina, giustificata con il richiamo alla “denazificazione” che gli Alleati imposero alla Germania. Ai simboli della Grande guerra patriottica è stato dunque assegnato un ruolo centrale nel credo, attraverso operazioni di spoliticizzazione e sacralizzazione.
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