Stefano Bottoni (Università di Firenze)
Perchè e come l’Ungheria di Viktor Orbán è divenuta negli ultimi anni uno dei principali cavalli di Troia del neo-imperialismo russo? La domanda che ogni esperto dell’Ungheria contemporanea si sente rivolgere non ha una risposta univoca e incontrovertibile. Possiamo appoggiarci ad alcuni frammenti di evidenza documentale e a ipotesi interpretative che il tempo potrà confermare o smentire. L’obiettivo di questa breve analisi è illustrare le premesse e gli inizi di quella che molti oggi descrivono ormai come un’alleanza informale Mosca-Budapest che interferisce con l’appartenenza dell’Ungheria al sistema di alleanze occidentale.
Partiamo dal contesto storico. A differenza di molti dei suoi vicini, l’Ungheria non vanta alcuna vicinanza etnica, linguistica, religiosa con lo Stato erede dell’Impero zarista e dell’Unione Sovietica. Gli ungheresi non sono di origine slava, l’ungherese è incomprensibile ai parlanti delle lingue slave, e tra la popolazione ungherese i cristiano-ortodossi rappresentano una sparuta minoranza. Quanto ai rapporti storici nell’età contemporanea, i precedenti trasudano violenza e prevaricazione: dalla repressione congiunta della rivoluzione nazionale ungherese del 1848-49 da parte delle truppe asburgiche e zariste fino alla brutale liberazione/occupazione del 1944-45 e all’intervento armato sovietico dell’autunno 1956 per sopprimere la rivoluzione ungherese. Gli unici momenti in cui gli interessi strategici di Mosca e Budapest hanno coinciso nell’ultimo secolo risalgono alla seconda metà degli anni Trenta, quando Mosca appoggiò strumentalmente le mire revisioniste ungheresi sui territori persi dopo la prima guerra mondiale con il trattato di pace del Trianon; più recentemente, va ricordata la fruttuosa collaborazione di Michail Gorbačëv e del suo gruppo dirigente con le élites comuniste e post-comuniste ungheresi, fra il 1988 e il 1991, per gestire pacificamente e in modo ordinato la transizione dal sistema di tipo sovietico alla democrazia multipartitica. Per ragioni comprensibili, le convergenze parallele intorno al patto Molotov-Ribbentrop e i primi due anni della Seconda guerra mondiale combattuta da Stalin al fianco di Hitler non sono divenute parte della memoria comune.
In estrema sintesi: l’Ungheria di Viktor Orbán non è la Serbia di Aleksandar Vučić, legata alla Russia e all’immagine di una Russia “madre” dei popoli slavi come a un cordone ombelicale. E non è neppure legata per motivi linguistici, culturali o storici alla Russia e al mondo russo. È un paese che nell’ultimo decennio si è legato politicamente alla Russia di Vladimir Putin senza alcuna chiara motivazione di matrice storica, culturale o più prosaicamente economica. Come nel caso della Germania, dell’Austria e dell’Italia, tutti paesi le cui classi dirigenti e gli organi di informazione sono da tempo coltivati dalla propaganda russa.
Perchè allora l’Ungheria e il suo uomo forte, Viktor Orbán? Erede politico di una tradizione, quella della destra ungherese, nettamente antirussa e antisovietica, come leader del movimento liberale e poi conservatore Fidesz, dal 1989 agli anni Duemila non faceva mistero della sua diffidenza per ciò che la Russia aveva rappresentato e rappresentava nella politica mondiale. Durante la sua prima esperienza di governo, dal 1998 al 2002, Orbán sfoggiò un atlantismo che non piacque al Cremlino, tanto che a Mosca l’inattesa vittoria socialista del 2002 fu accolta con sollievo. Negli anni successivi fu la sinistra ungherese, guidata dai primi ministri Péter Medgyessy e poi Ferenc Gyurcsány, ad avviare con il presidente Vladimir Putin un proficuo rapporto fatto di cortesie diplomatiche ma anche di lucrosi accordi sul transito e lo stoccaggio del gas russo in Ungheria. Orbán era fuori dai giochi, al punto da appoggiare la Georgia nel conflitto armato del 2008 con Mosca e a scontrarsi pubblicamente con l’ambasciatore russo a Budapest al grido: “Non saremo la baracca più allegra di Gazprom”. Quando e cosa è dunque cambiato?
Fonti diplomatiche hanno recentemente rivelato che, al contrario di quanto sapevamo sinora, il primo incontro fra Putin e Orbán – allora leader dell’opposizione di centro-destra – e Orbán avvenne a Budapest già nel marzo 2006, nella hall di un hotel di lusso e su espressa richiesta di Orbàn avanzata tramite il ministero degli Esteri ungherese, a margine di una visita di Putin in Ungheria.
Come ha osservato un ex diplomatico ungherese, si trattava di un passo irrituale da parte del capo dell’opposizione. Il contenuto della conversazione non è mai trapelato ma l’avvenuto incontro aiuta a chiarire il mistero che a lungo ha circondato l’avvio dei contatti ufficiali fra Fidesz e Russia Unita, nel novembre 2009.
Negli ultimi anni giornalisti investigativi, sociologi e scienziati politici di vari paesi hanno scandagliato il passato personale di Viktor Orbán per scoprire le radici di questa improbabile liaison. Secondo la teoria proposta nel 2015 da Lajos Simicska, ex tesoriere del partito di Orbán e grand commis del suo sistema fino alla rottura avvenuta quell’anno, Orbán potrebbe essere stato reclutato dall’intelligence militare ungherese in occasione del suo temporaneo richiamo nell’esercito popolare, nel 1988. Le informazioni sensibili relative al futuro primo ministro sarebbero finite a Mosca, terminale obbligato dello spazio informativo del Patto di Varsavia. Nel 2017 il portale investigativo russo Insider rivelò che le autorità russe possiederebbero sul premier ungherese un kompromat relativo a un ingente finanziamento illegale ricevuto personalmente da Orbán nel lontano 1994. Il donatore sarebbe stato Simën Mogilevič, un mafioso russo-ucraino-israeliano di alto calibro che negli anni Novanta risiedeva legalmente a Budapest ed era conosciuto negli ambienti criminali come “zio Ševa”. In quel periodo Mogilevič utilizzava la capitale ungherese come base operativa e finanziaria per i suoi ingenti traffici illegali, con la complicità della polizia locale, guidata dal ministro degli Interni di tutti i governi di Orbán, Sándor Pintér. Quando il mafioso fu arrestato a Mosca nel 2008, Orbán guidava non solo l’opposizione di destra al governo socialista-liberale di Ferenc Gyurcsány, ma anche il fronte europeo anti-Gazprom. Il milione di marchi tedeschi che avrebbero finanziato la campagna elettorale di Orbán nel 1994 sarebbero diventati l’assicurazione sulla vita di Mogilevič. Nel 2008 quest’ultimo avrebbe infatti consegnato la documentazione in suo possesso relativa al politico ungherese a Nikolaj Patrušev, capo dell’FSB e fedelissimo di Putin. Se kompromat vi era, esso sortì l’effetto sperato: Mogilevič fu rimesso in libertà nel 2009 e di lì a poco Orbán ricevette il suo primo invito ufficiale in Russia dall’inizio della sua attività politica. Di ritorno da un viaggio in Cina e nella posizione di probabile futuro primo ministro del Paese in vista delle elezioni del 2010, Orbán si fermò a San Pietroburgo per partecipare al congresso di Russia Unita. Quella mezz’ora di colloquio privato con Putin cambiò tuttavia il corso della politica di Orbán nei confronti della Russia. Alla vigilia del voto, due luogotenenti di Orbán, il tesoriere del partito Lajos Simicska e l’oligarca Zsolt Nyerges volarono a Mosca per una missione segreta. A dimostrazione che già nel 2010 il sistema di Putin non separava mai politica, affari e sicurezza statale, gli ospiti ungheresi furono scortati direttamente al quartier generale dell’FSB, il servizio interno di sicurezza russo. Un alto funzionario dei servizi segreti li accolse per discutere delle basi di una nuova cooperazione economica bilaterale in seguito alla prevista, larghissima vittoria elettorale del partito di Orbán. Il messaggio inviato con il ricevimento alla Lubjanka era chiaro: questo è il modo in cui noi impostiamo i rapporti politici.
Il successivo riorientamento della politica estera di Orbán in senso antioccidentale, filorusso e (meno apertamente) filo-Putin non sembrerebbe basato su un’evoluzione organica del suo pensiero, ma sull’ambizione di ampliare a dismisura la propria sovranità politica. Studiosi dell’autoritarismo contemporaneo e analisti del mondo post-sovietico evidenziano tuttavia, nell’involuzione antidemocratica della leadership orbaniana, una chiara consonanza con le tematiche della propaganda ufficiale russa. La promozione della “famiglia tradizionale”, ragion d’essere del Congresso Mondiale delle Famiglie finanziato dall’oligarca russo Konstantin Malofeev, la propaganda “anti-gender” e le tirate antioccidentali che contraddistinguono ormai il discorso pubblico ufficiale ungherese sono in perfetta consonanza con il modello russo.
Analogamente, molto si è speculato sui motivi che spingono Orbán, il suo partito e i media ufficiali ungheresi ad assumere una posizione smaccatamente ostile all’Ucraina invasa. Anche considerando il lato economico della cooperazione russo-ungherese, incentrata negli ultimi anni sul discusso progetto di ampliamento della centrale nucleare di Paks affidato a Rosatom, le principali motivazioni sono legate a interessi geopolitici e discorsi culturali. Orbán e il suo partito aderiscono sinceramente alla tesi dell’inesistenza della nazione ucraina come “comunità stabile di persone”, per riprendere la famosa definizione di nazione data da Stalin nel 1913 e ripresa nel febbraio 2022 da Putin per giustificare l’invasione di un paese “artificiale”. Politici e giornalisti polacchi hanno ripetutamente accusato le autorità ungheresi di aver sperato nel 2014 e nuovamente nel 2022 in una disintegrazione territoriale dell’Ucraina, per trarne vantaggio attraverso l’occupazione dell’ex regione ungherese della Transcarpazia, una zona di confine finora risparmiata dalla guerra in cui restano oggi meno di 100mila ungheresi su un milione e mezzo di abitanti.
Lo storico non è oggi nella condizione di poter verificare gli indizi contenuti in questo articolo con gli strumenti abituali del suo mestiere, né sarà probabilmente in grado di farlo per i prossimi decenni. L’interrogativo sui motivi che stanno spingendo Viktor Orbán e il suo governo a trasformare un paese dalle tradizioni antirusse, come l’Ungheria, nella testa di ponte dell’influenza russa in Europa, coinvolgendo in questa opera di disinformazione consapevole sulla guerra l’opinione pubblica ungherese in patria e nei paesi circostanti, resta quindi affascinante quanto insoluto.