Diario della speranza russa – 27 novembre 2025

Lev Tulskij

Russia, 27 novembre 2025

Ci sono giorni in cui la Russia sembra oscillare come un pendolo tra memoria e presente, tra ciò che eravamo e ciò che siamo diventati. Dal 16 febbraio 2024, quando scrissi le prime righe sulla morte di Navalnyj, mi sembra di vivere in un’unica, lunga giornata senza alba, interrotta soltanto da piccoli lampi di dignità, come se un popolo intero respirasse a metà. Eppure proprio ottobre e novembre di quest’anno hanno mostrato una cosa che non avrei creduto possibile: la memoria, quando torna a bussare, cambia perfino il presente. Lo si è visto il 30 ottobre, nel Giorno della Memoria delle Vittime della Repressione Politica. A San Pietroburgo, attorno al Sasso delle Solovkì, giovani, anziani, deputati dell’opposizione e perfino diplomatici stranieri hanno depositato fiori in silenzio. L’atmosfera era spessa, come nei funerali di Navalnyj: nessuno parlava, ma ognuno sapeva di essere osservato. Eppure continuavano a farlo, come ogni anno. Lo raccontavano diversi canali dissidenti, con quelle foto che ho guardato a lungo: mani che si sfiorano mentre posano un fiore, occhi che scrutano se la polizia stia arrivando, persone che non cedono.

La memoria del 30 ottobre, però, non è un rito innocuo. È un contrappeso alla propaganda quotidiana, e forse è per questo che il potere teme perfino i nomi scritti su un cartellino.

Nuovi fatti di ordinaria repressione

Se oggi un ragazzo a Perm’ decide di cantare una canzone di un artista dichiarato “agente straniero”, rischia un procedimento amministrativo. Anche questo è accaduto: al prestigioso Istituto Musicale “Rimskij-Korsakov” di San Pietroburgo, gli studenti hanno ricevuto una circolare che li avverte delle possibili conseguenze del «pubblico utilizzo di musiche appartenenti a artisti riconosciuti come agenti stranieri». La stessa circolare lascia intendere che perfino un errore in buona fede, o una scelta musicale non gradita, può risultare in sanzioni.

Tutto avviene con un linguaggio burocratico gelido, ma il messaggio reale è chiarissimo: non c’è spazio per l’imprevisto, né per la libertà culturale.

I “valori”

E mentre nelle università e nei conservatori si vigila sulla musica, nelle scuole della provincia si orchestrano corsi di “Semjevedenie”, una nuova materia extracurricolare ma obbligatoria, che insegna ai bambini il senso della famiglia attraverso manuali scritti da sacerdoti ortodossi.

Li ho sfogliati online: «Ogni sposa nasce per il suo sposo», «La vita è impossibile senza fede», «La purezza prematrimoniale è la base della Russia forte». I corsi prevedono lezioni in cui si mostrano immagini di embrioni, racconti sull’aborto presentato come “crimine contro la patria”, e perfino la dichiarazione che neppure un caso di stupro può giustificare una interruzione di gravidanza. È una biopolitica alla vecchia maniera, una pedagogia dell’obbedienza, che spinge bambine di tredici anni a pensare alla maternità come destino nazionale.

Tutto questo si intreccia a una crisi civile e demografica che il potere non ammette apertamente.

Le reticenze patriottiche

Le regioni di frontiera come Belgorod crollano sotto i colpi quotidiani: blackout, perdita di case, paura continua. Ogni volta che qualcuno chiede aiuto, come gli attivisti locali che hanno chiesto al cantante-patriota Šaman di devolvere parte dei suoi guadagni ai generatori elettrici per la popolazione, i commenti vengono cancellati.

È come se la sofferenza reale del Paese, quella quotidiana, dovesse rimanere invisibile per non disturbare il racconto dell’unità nazionale. Mentre tutto questo accade, la repressione non si interrompe mai. Il canale https://ovd.info/ continua a pubblicare i suoi report quotidiani: nuovi arresti, nuove udienze, nuovi procedimenti contro “estremisti”, “terroristi”, “propagatori di fake”. Ma le categorie giuridiche non dicono nulla: dietro ciascuna di esse c’è una persona che ha postato una frase, un’immagine, una poesia, un pensiero. 

Nuovi gesti di coraggio

Dal progetto «Politzeki» di Mediazona arrivano ritratti brevi di uomini e donne che vivono mesi di isolamento solo perché hanno detto una parola di troppo. E dal canale “Pervyj Otdel” arrivano spiegazioni preziose: la differenza tra “political prisoner” e “prisoner of conscience”, tra chi è accusato di estremismo e chi è condannato per aver definito la guerra “una guerra”: distinzioni formali, certo, ma importanti per capire come funziona il meccanismo repressivo attuale. Tutte queste risorse sono pubbliche, accessibili, verificabili. Nessuna delle storie raccolte ha il tono della propaganda: sono resoconti secchi, giudizi documentati, materiali d’archivio.

Come stanno Vera Afanas’eva e Aleksandr Gorbunov?

Mentre leggo questi resoconti quotidiani, penso spesso anche al silenzio forzato di chi, negli ultimi dieci anni, aveva incarnato un’altra forma di resistenza: quella dell’ironia, della satira, dell’umorismo come linguaggio di salvezza. Penso a Vera Afanas’eva, la fondatrice del canale Gorod Glupov, che con quella sua intelligenza feroce riusciva a trasformare gli assurdi della burocrazia russa in parabole morali. Il suo canale, nato come semplice osservatorio del quotidiano, era diventato una delle voci più limpide e taglienti della società civile. Da mesi non scrive più. L’ultima estate l’ha inghiottita un silenzio che pesa come un presagio. Nessuno sa se possa ancora permettersi di raccontare ciò che vede, o se, semplicemente, abbia capito che ogni parola ormai può diventare un rischio reale, immediato. E penso ad Aleksandr Gorbunov, il creatore del celebre canale Stalingulag, uno dei pochissimi canali che per anni è riuscito a dire la verità usando solo la forza della lingua, dell’ironia, del paradosso. Gorbunov ha raccontato il potere attraverso la fragilità del proprio corpo, trasformando la sua malattia in una specie di manifesto sulla dignità umana. Da questa estate anche lui è sparito. I messaggi si sono interrotti, la voce si è spenta, le pagine sono rimaste immobili come finestre chiuse durante l’inverno del Nord. Nessuno sa se sia una scelta o una costrizione, ma chiunque abbia seguito il suo lavoro sente un’angoscia profonda: quando una voce così limpida smette di parlare, non è mai un caso. È sempre il sintomo di qualcosa che si muove nell’ombra.

Il silenzio di Vera Afanas’eva e di Aleksandr Gorbunov è uno dei segni più dolorosi di questi mesi. Vera e Aleksandr erano diventati compagni di strada per milioni di persone che, attraverso le loro parole, riuscivano ancora a respirare. In Russia la satira non è intrattenimento: è una forma di verità. E quando la verità smette di ironizzare, quando non trova più nemmeno il coraggio di ridere, allora significa che la pressione è diventata quasi insopportabile.

 Ma altri non smettono

E tuttavia, proprio mentre alcune voci si spengono, altre, sorprendentemente, continuano a parlare. Non ne scrivono i giornali, non circolano sui media occidentali, ma sui social russi appaiono ancora testimonianze di una limpidezza che commuove. Una docente, qualche giorno fa, raccontava come, per anni, avesse pensato che la Russia fosse una terra senza scampo, un luogo dove alle persone è destinato solo il dolore; poi, lentamente, quel sentimento si era trasformato nel desiderio di resistere. E quando aveva visto il gesto puro e spontaneo di una giovane artista, aveva sentito che il bene non era scomparso. «In Russia vivono ancora molte persone buone, luminose, straordinarie», scriveva.

La vicenda di Diana Loginova: l’arresto, la liberazione

Si riferiva a ciò che è successo in ottobre: a San Pietroburgo la cantante di strada del gruppo Stoptime, Diana Loginova — pseudonimo Наоко — è stata arrestata, con compagni del collettivo, solo per aver cantato canzoni di artisti inseriti nella lista degli “ino-agent” (agenti stranieri). Il pezzo che racconta l’arresto e la successiva ondata di solidarietà in decine di città viene proprio da un reportage di TakieDela (https://takiedela.ru/notes/yarkiy-svet-v-kromeshnoy-tme/?utm_medium=smm&utm_source=vk&utm_campaign=engagement&utm_content=post&utm_term=) intitolato «Jarkij svet v kromešnoj t’me» (Una luce vivida nel buio più fitto).

Non è soltanto un fatto giudiziario: è la cartina al tornasole di cosa significhi oggi essere giovani, creativi, liberi in Russia. Giovani come lei — come molti — che tentano solo di usare la propria voce per dire qualcosa, per respirare, per resistere. Molti, in quelle ore, hanno scritto sui social russi: «All’inizio pensavo che la Russia fosse un territorio senza via d’uscita, dove a noi era destinato solo dolore. Poi questo sentimento si è trasformato, è apparso il desiderio di resistere… E quando vedi un’espressione sincera come quella di Наоко, ti si scalda l’anima, perché ricorda che in Russia vivono ancora tante persone buone, luminose, meravigliose». Parole semplici, anonime, ma cariche di umanità. 

Diana Loginova, arrestata per aver cantato per strada canzoni di autori «proibiti», è stata alla fine liberata grazie a una petizione che ha raccolto più di 50 000 firme. Ora è fuggita a Erevan. Questa vicenda — l’arresto, la solidarietà, le testimonianze — è per me un altro segno: la repressione non è riuscita a spegnere la voglia di resistenza. E ogni volta che qualcuno osa parlare, anche solo con una canzone, con una frase sui social, con un messaggio, con un ricordo, quella voce diventa un faro nella tenebra. Ed è un faro che vale la pena continuare a raccontare. Il potere teme le canzoni, teme le parole, teme le speranze. Ma non sempre riesce a calcolare la forza di un cuore che non vuole smettere di sperare. E io, ogni volta che posso, mi metto dall’altra parte: dalla parte di chi ascolta, di chi trascrive, di chi non dimentica.

Un convegno

Qualcun altro sui social ha il coraggio di raccontare poi di un convegno linguistico al quale aveva partecipato, in un grande ateneo del Paese. Doveva essere un incontro dedicato alla diversità linguistica e culturale del mondo contemporaneo; e invece è diventato la dimostrazione di come una parte della filologia russa sia ormai piegata alla propaganda. Ogni terzo intervento si è trasformato apertamente in un discorso sulla “giusta percezione” del mondo secondo la linea ufficiale. Una relatrice sosteneva di aver individuato “russofobia” nei film americani degli anni Novanta e perfino in un vecchio cartone animato, arrivando a parlare della canzone “Russians” di Sting come esempio di ostilità antirussa, ignorando che Sting non è americano, che la canzone è del 1984 e che è una critica alla guerra fredda e alla dottrina nucleare.

In un altro intervento due docenti affermavano con orgoglio che nelle loro università era vietato l’uso degli anglicismi, mentre un’altra relazione esaltava il fatto che, in un incontro diplomatico, un leader mondiale avesse “mangiato il pranzo” dell’avversario, trasformando un dettaglio culinario in metafora politica. Ma il momento più rivelatore è stato quando tra i partecipanti online è comparso un uomo in uniforme, identificato come rappresentante delle strutture di sicurezza, che parlava di “valori culturali tradizionali” attraverso il prisma di un festival militare-musicale. A quella conferenza filologica, la sua presenza appariva come una nota stonata, eppure perfettamente coerente con il tempo che viviamo: la scienza che si lascia addomesticare, la cultura che si piega, il linguaggio che diventa un’arma.

In quel racconto coraggioso non c’è amarezza sterile; c’è dolore, ma anche una dignità ferma. «Fa male vedere la scienza ridotta così», scriveva, «ma so che non è tutto. So che ci sono ancora convegni veri, colleghi veri, luoghi veri dove si pensa, e dove la lingua resta un ponte, non uno strumento di paura». E quel breve post si chiudeva ricordando una frase che in questi mesi ritorna spesso: «Non esiste una guerra che possa essere vinta». Lo dice Sting nella sua canzone, ma potrebbe dirlo chiunque abbia guardato negli occhi il proprio Paese con amore e timore insieme.

Queste piccole testimonianze, invisibili al mondo, sono una parte essenziale della nostra speranza. Perché, nonostante la censura, la propaganda, la manipolazione dei simboli e della memoria, ci sono ancora russi che parlano con questa chiarezza. E ogni volta che qualcuno riesce a farlo, anche solo per un istante, mi sembra che la notte si apra di qualche millimetro.

Cosa succede fra la Carelia e la Finlandia

Questi mesi, poi, hanno portato una nuova ombra. In Carelia le autorità hanno iniziato a creare «družiny» per affiancare i militari nella protezione del confine con la Finlandia, che proprio in questi mesi conduce esercitazioni con 15.000 soldati. È un ritorno a logiche da frontiera sovietica: cittadini armati, volontariato militarizzato, confini che diventano narrazioni. E intanto il Cremlino propone l’idea di pattuglie interne di riservisti, semplicemente per sorvegliare “infrastrutture critiche” in tempo di pace. Si respira una sensazione di mobilitazione diffusa, come se la sicurezza dovesse ormai essere la responsabilità di tutti, tranne che dello Stato stesso. 

La terza via fra retorica e disperazione

È difficile descrivere la Russia del 2025 senza cadere nella disperazione o nella retorica. Da un lato, ogni giorno sembra offrire un nuovo motivo per temere che tutto sia perduto. Dall’altro, proprio queste crepe – le commemorazioni del 30 ottobre, gli studenti che protestano silenziosamente, i volontari che continuano a scrivere ai prigionieri, le madri che chiedono di riportare a casa i propri figli dal fronte – lasciano intravedere una vitalità civile che il potere non riesce a soffocare del tutto. Ci sono giorni in cui mi basta leggere un messaggio su Telegram scritto alle due del mattino da una ragazza di Samara, che denuncia gli abusi del suo distretto scolastico, per capire che la Russia non è riducibile ai suoi governanti. Negli ultimi mesi ho pensato spesso a ciò che scrivevo nel 2024, quando paragonavo Navalnyj ai santi martiri Boris e Gleb.  

Il potere li definiva “traditori del clan”, ma la memoria li ha trasformati in simboli di innocenza e verità. Non c’è una retorica mistica in ciò che dico: è che nella nostra storia, la sofferenza non è mai stata irrilevante. Ha lasciato tracce, novelle, icone, poesie, canti. E oggi queste tracce ritornano nei manifesti improvvisati, nelle lettere ai prigionieri, nei fiori posati davanti al Sasso delle Solovki. A volte mi domando se questo diario abbia ancora senso. In un Paese dove i giornali sono stati chiusi, dove il dibattito pubblico è un teatro vuoto, una testimonianza personale sembra poca cosa. Ma poi ripenso a ciò che diceva un attivista anonimo intervistato da Mediazona: “Se anche una parola sopravvive, sopravviviamo anche noi”. Ho l’impressione che scrivere sia diventato un modo di tenere aperta una fessura. Di impedire che l’oscurità diventi l’unico linguaggio possibile. La Russia d’oggi è stanca, profondamente ferita, ma non silenziosa. Nei suoi angoli più oscuri, nelle scuole dove si predicano dogmi arcaici, negli istituti d’arte dove si punisce la musica sbagliata, nelle regioni bombardate, nei tribunali che processano poeti, si muove un’altra Russia: una Russia che legge, che scrive, che protesta senza farsi vedere, che manda generatori ai vicini, che raccoglie firme online, che passeggia il 30 ottobre con un fiore e non guarda se c’è una telecamera. Il potere lavora sull’oblio; la gente lavora sulla memoria. 

E questo diario sta da quella parte lì. Per questo continuo a scrivere: perché ogni volta che la menzogna diventa sistema, la verità deve diventare voce. E perché, nonostante tutto, lo sento ancora: in mezzo a tutta questa oscurità, c’è una Russia che non ha completamente smesso di sperare.