Kyïv e l’Unione europea tra Mosca, Pechino e Washington

Andrea Graziosi

È impossibile dire cosa accadrà in Ucraina nel prossimo futuro, ma si può partire da alcune certezze e dedurne alcune possibili conseguenze, tenendo presente che il futuro resta imprevedibile, un’imprevedibilità che ha oggi il volto di Trump.

La prime due certezze sono di segno positivo. Con la loro resistenza, una resistenza ancora tenacissima malgrado stanchezza, sofferenze e povertà, gli ucraini hanno fatto capire a tutto il mondo di esistere, di non essere russi e di non volerlo essere. Da questo punto di vista, che è il principale, essi hanno già vinto. Ciò sarebbe vero persino nel caso—che sembra tuttavia improbabile—che il loro desiderio di autodeterminazione fosse per il momento represso: come coi polacchi del XIX secolo, la sua affermazione è stata talmente netta e forte da costituire comunque un pegno di liberazione futura. Più probabilmente si tratta piuttosto, e per fortuna, di vedere e capire, con realismo ma anche determinazione, quanta Ucraina può esistere, e con quanta libertà, già oggi, puntando al massimo possibile.

La seconda certezza è che Putin ha già e comunque perso, e che con lui e a causa sua anche la Russia è stata sconfitta. È una sconfitta testimoniata da tre anni di una guerra che doveva durare pochi giorni per conquistare un paese più piccolo, molto meno ricco e molto meno armato che è riuscito a infliggere a Mosca due disfatte, quella dei reparti migliori dell’esercito nel 2022 e quella della compagnia Wagner nel 2023. È una sconfitta che si incarna oggi nella crescente dipendenza dalla Cina e ha come simbolo l’umiliazione dei rapporti con la Corea del Nord dove il grande Putin è costretto a recarsi col cappello in mano, una cosa semplicemente impensabile solo qualche anno fa.

A queste due certezze positive se ne aggiungono alcune di carattere contraddittorio.La prima è la tenuta fin qui mostrata nel suo complesso dall’Unione europea, una tenuta tutto sommato inattesa ma che è minata, anche sul piano militare, dalla debolezza della sua struttura, inadatta al nuovo mondo in cui stiamo già vivendo, e dalle sue divisioni interne.

La seconda, in cui già prevalgono gli aspetti negativi, è la vittoria di Trump, che priva l’Ucraina della sicurezza del suo più forte alleato e la costringe a ridimensionare le sue aspettative. Si può tuttavia sperare che Trump non voglia iniziare quello che immagina come un mandato trionfale con una prova di debolezza, e abbia quindi interesse a raggiungere un compromesso che tenga conto degli interessi di Mosca ma anche dell’immagine degli Stati Uniti nonché di quella dell’Occidente a guida americana, per quel che ne resta, e quindi anche degli interessi ucraini. Se ciò non succedesse, saremmo di fronte al segno, netto, di una scelta isolazionista che aprirebbe la porta a nuove sciagure.

Vi sono infine delle certezze negative, malauguratamente più numerose ma di cui occorre tener conto. La prima, banale ma di grande portata, è che le potenze nucleari come la Russia non possono essere sconfitte se non per crollo interno. Il ricatto atomico, cui prima si alludeva ed è ora apertamente rivendicato (penso al mutamento della dottrina strategica russa, anticipato dagli articoli di Sergej Karaganov, o all’uso di missili a testata multipla abitualmente come vettori di testate termonucleari), ha costretto da subito gli alleati di Kyïv a lesinare e condizionare gli aiuti e l’Ucraina a combattere con le mani legate.

La lezione per tutti i paesi capaci di costruirsi un arsenale nucleare proprio è stata chiara e, si può presumere, ascoltata: per essere davvero indipendenti nel nuovo e più duro mondo del XXI secolo occorre averne uno. Una crisi profonda nel medio se non nel breve periodo della non proliferazione è quindi nell’ordine delle corse, ed è interesse di tutti, e perciò anche dell’Unione europea, porsi apertamente il problema di avere un proprio arsenale strategico, vista anche la crescente fragilità della copertura statunitense. Questo, naturalmente, se vogliamo garantire la nostra indipendenza.

La seconda certezza negativa è rappresentata dall’ennesima dimostrazione della quantità di denaro di cui Mosca può disporre grazie alle sue materie prime e dalla forza che quel flusso di contante le assicura. Putin può quindi evitare, come ha fatto finora, di mobilitare gli strati più agiati della popolazione, garantendo la tranquillità delle sue grandi città. Egli può infatti mandare a combattere “volontariamente” gli abitanti delle sue tante zone depresse, russe e non russe, e i tanti emarginati, anche di mezza età, che si arruolano e muoiono per paghe che toccano quelle della buona media borghesia urbana. Queste paghe, finanziate appunto coi proventi energetici, raggiungono le decine di migliaia di euro all’anno, e ad esse si sommano le forti indennità pagate in caso di invalidità e morte, che permettono alle famiglie di comprar casa e di assicurare il futuro dei figli (pare che in alcune regioni russe si dica paradossalmente che “la guerra non è roba per giovani”).

Ricatto nucleare e denaro, insieme alla dura determinazione (confermata dalla liquidazione di Prigozhin) e alla spregiudicatezza di scelte di politica estera compiute anche a scapito del prestigio di Mosca e della futura indipendenza della Russia (rappresentate rispettivamente dall’alleanza con Corea del Nord e Iran e dalla crescente dipendenza dalla Cina), sono state le leve principali dell’almeno temporanea “ristabilizzazione” del regime putiniano seguita alla crisi dell’estate 2023, quando dopo la sconfitta della Wagner Prigozhin cercò di marciare su Mosca.

Questa stabilizzazione, che rappresenta la terza delle certezze negative, è stata ottenuta anche grazie a una più radicale mobilitazione finanziaria e economica, che ha innescato il classico boom, seguito dall’altrettanto classica crisi, tipici delle economie di guerra sin dal primo conflitto mondiale. Le risorse valutarie prodotte dall’esportazione di energia (e non solo) hanno permesso per ora di tamponarla, ma non possono risolverla e non è detto che le cose non si aggravino velocemente, come nell’Europa, se non nell’Impero russo, del 1917.

La “ristabilizzazione” si è accompagnata a una nuova tappa dell’evoluzione, o piuttosto involuzione, dell’ideologia con cui Putin cementa il suo potere. La Russia, già parte dell’Europa degli anni della sua prima presidenza (una retorica in sintonia coi nostri sogni, desideri e interessi), e poi sostituita da un “mondo russo” euroasiatico a noi solo adiacente, è ora diventata ufficialmente uno stato-territorio-civilizzazione a se stante, come recita la nuova, ignorante e volgare ideologia ufficiale del “DNA russo” (DNK Rossii), divenuta materia scolastica obbligatoria dall’autunno del 2023. Questo DNA “civilizzazionale” sarebbe composto anche da fattori morali e spirituali che farebbero della Russia un mondo, e quindi un super-individuo, autonomo e indipendente, che i suoi abitanti—legati intimamente ad esso—non potrebbero tradire neanche se lo volessero.

La parentela e l’affinità con le oscure radici della geopolitica tedesca, che ha nutrito le teorie naziste del Lebensraum, ma anche con la ben più colta rivisitazione che ne fece Arnold Toynbee nel mondo anglosassone, sono evidenti, così come è evidente il loro orecchiare le tesi sullo Scontro delle civiltà di Samuel Hungtinton, che riecheggiavano a loro volta quelle di Toynbee. Questa evidente parentela, e la sorprendente penetrazione delle dottrine della Chiesa ortodossa russa da parte delle idee della rivoluzione conservatrice statunitense, maturate a partire dagli anni Sessanta nella nuova destra protestante americana, bastano tra l’altro a smentire la supposta autonomia “spirituale e culturale” di una civilizzazione russa che sembra piuttosto essere cresciuta grazie a legami internazionali frutto di quella stessa globalizzazione che così violentemente contesta.

Vi sono infine altre quattro certezze, tutte di segno negativo: nel settembre 2022, alla fine di un processo avviato prima della controffensiva ucraina, Putin ha formalmente annesso alla Russia quattro grandi regioni ucraine che non controllava ancora ufficialmente, e di cui ha poi perso porzioni che credeva di aver conquistato. Poiché sembra davvero difficile che Putin possa accettare di riscrivere una Costituzione trionfalmente emendata, la possibilità stessa di una pace che non segni un suo trionfo è esclusa, lasciando sul terreno—a meno di un cedimento ucraino e quindi anche statunitense (se Trump così vorrà) e europeo—la sola opzione di un difficile armistizio con una potenza che ha come suo fine ufficiale la conquista di territori anche di fatto altrui. Un semplice ritorno al nostro più felice passato sembra quindi quasi impossibile.

Un’altra certezza è quella della stanchezza ucraina, delle sofferenze della sua popolazione e del bisogno di pace che ne deriva, una stanchezza che si riflette in quella di una Russia dove il primo boom dell’economia di guerra si è già consumato e dove i ceti urbani medio-alti, ancorché spesso nazionalisti, non sono in buona parte felici della direzione presa dal paese.

Queste due parallele stanchezze dovrebbero in teoria rendere possibile arrivare al compromesso armistiziale di cui si diceva. A opporvisi vi è però il fortissimo interesse cinese a che la guerra continui: grazie alla guerra Pechino ha l’occasione straordinaria di portare la Russia e soprattutto le sue grandissime risorse, tanto preziose per l’industria cinese, nella propria sfera di influenza. Alla soddisfazione di veder ridotta in una situazione di semi-vassallaggio (sia pur temperato dall’armamento atomico) una potenza che un tempo l’aveva oppressa, Pechino unisce il subitaneo rivolgersi verso la Cina di un’Asia centrale spaventata dall’aggressività russa, un insieme di fattori positivi al cui confronto, specie sul lungo periodo, la perdita di qualche mercato europeo e di qualche scambio con un’Europa già in parte depredata delle sue tecnologie grazie alle sue incaute precedenti aperture è solo una piccola ‘macchia’.

Ciò ci porta all’ultima certezza negativa, rappresentata dal danno, gigantesco, che le politiche di Putin hanno già provocato e provocheranno a una Unione europea privata di risorse energetiche, umane e culturali fondamentali, messa di fronte alla crisi della copertura statunitense e prigioniera di meccanismi inadeguati che le hanno finora impedito di far fronte alla sfida esiziale posta da questi anni difficili. Il fatto che queste politiche—ispirate forse anche dal risentimento verso un’Europa che la Russia ha a lungo inseguito e da cui è stata accolta due volte, all’inizio del XIX e poi di nuovo alla fine del XX secolo, salvo allontanarsene per sua scelta nel 1917 e nel 2007-08—siano anche gravemente autolesionistiche non può essere motivo di alcun conforto, anzi.

Degli esiti possibili ho già indirettamente detto. Anche se non ripristinerebbe la giustizia e non ci riporterebbe a un passato che sembra perso per un periodo probabilmente lungo, l’esito che sembra oggi quello relativamente più favorevole sarebbe forse rappresentato da una soluzione armistiziale con forti garanzie all’Ucraina. Penso al suo accoglimento nell’Unione europea, a rifornimenti significativi di armi e tecnologia bellica (che rianimino il complesso militare-industriale dell’Unione), magari a truppe di paesi europei e di organismi internazionali a presidio dei suoi confini e possibilmente a qualche forma di associazione alla Nato. Ciò sarebbe pagato con la perdita, sia pure non riconosciuta, di alcuni territori occupati con la forza, e forse anche con quella riconosciuta di altri se Mosca accettasse di rinunciare alle sue pretese formali, e costituzionalmente sancite, su territori ucraini oggi sotto il controllo di Kyïv.

Chi ama la libertà e il futuro di un’Unione europea che deve proprio alla libertà la sua felicità degli ultimi decenni, e quindi sostiene l’Ucraina, deve quindi adoperarsi per una soluzione realistica che faccia il più possibile gli interessi ucraini nella situazione data, sapendo che l’incognita cinese e l’arsenale nucleare russo rendono tutto molto difficile (e questo senza pensare all’impatto, imprevedibile, della Presidenza Trump). Dopo un eventuale armistizio, seguito da nuove elezioni, un nuovo governo liberamente scelto sarebbe così chiamato a una ricostruzione fatta dentro e con l’Unione europea e guidata da principi che gli stessi ucraini hanno scelto e per cui hanno combattuto –quella libertà e dignità umane che malgrado anche terribili pesantezze iniziali sono stati finora sul medio-lungo periodo sinonimo di soluzioni positive. Un’Unione europea capace di affrontare la grande sfida che ha di fronte si troverebbe comunque più ricca e potrebbe magari un giorno riavviare il dialogo con una Russia “de-putinizzata” e rinsavita. O almeno questo è quello che è bene sperare.

(Pubblicato su il Foglio del 28 novembre 2024)