Fabio Molin
Lo spazio post-sovietico (area da cui vengono qui deliberatamente espunti i tre Stati baltici di Estonia, Lettonia e Lituania in ragione della loro acquisizione di lunga data al contesto euro-atlantico) emerge come macro-regione di suprema rilevanza per gli interessi nazionali di Mosca: ciò è ben evidente sia sul piano della corrente realtà fattuale sia sul piano della “dottrina”, laddove si ricordi che l’ultima versione (marzo 2023) del documento “Concetto di politica estera della Federazione Russa” ribadisce il collocamento dell’area dell’ex-URSS al vertice della graduatoria degli scacchieri di richiamo per il Cremlino.
Così, mentre dal nostro punto di vista lo spazio post-sovietico appare prima di tutto una macro-regione di ragguardevole complessità – da articolare quanto meno in una sub-regione occidentale (comprendente Bielorussia, Moldova e Ucraina), in una caucasica (Armenia, Azerbaigian e Georgia) e in una centrasiatica (i cinque “Stan”: Kazakhstan, Kyrgyzstan, Tagikistan, Turkmenistan e Uzbekistan)- a Mosca esso viene interpretato, pur senza disconoscere le specificità locali, alla stregua di un’area omogenea nella misura in cui costituisce una sorta di scudo protettivo del territorio federale.
Lo spazio post-sovietico è tradizionalmente cinque cose per Mosca: un reticolo di Paesi percepiti non come realmente sovrani, ma costituenti piuttosto un luogo di confronto delle capacità di influenza dei principali attori internazionali; un perimetro minimo di sicurezza, a tutela dei confini esterni della Federazione; un prezioso serbatoio di risorse umane, che contribuiscono a riequilibrare le declinanti prospettive demografiche nazionali; un utile repertorio di forza-lavoro a basso costo per l’esercizio di mestieri/professioni che il cittadino russo tende da tempo a non voler più praticare; uno spazio di riferimento in cui è cresciuta, parallelamente all’affermazione politica della Chiesa Ortodossa Russa, la rilevanza della dimensione religiosa. In proposito, si pensi, da un lato, al concetto di ‘spazio canonico di riferimento” che la Chiesa Ortodossa estende – oltre che al territorio federale – all’intera Bielorussia, all’Ucraina centro-orientale e al Kazakhstan settentrionale e, dall’altro, ad alcuni contenuti del “Nakaz” del Sinodo di marzo scorso.
I fattori qui ricordati sono in buona parte alla base della percepita necessità di Mosca di disporre di una profondità strategica nello spazio post-sovietico: aspetto che emerge peraltro distintamente dalle attività cinetiche russe nelle crisi di questi anni in Georgia, Moldova, Kazakhstan e, da ultimo, Ucraina.
Ciò detto, non può essere disconosciuto che il Cremlino affronta oggi in tutte e tre le sub-regioni che compongono lo spazio post-sovietico sfide impensabili solo qualche anno fa. La cosa è particolarmente evidente nella porzione occidentale, per via del conflitto in corso da trenta mesi in Ucraina e della gravitazione occidentale perseguita dalla leadership della Moldova. Al contempo, non va dimenticato che la Russia ha proprio in questa sub-regione il suo principale alleato, ovvero la Bielorussia di Lukashenko, oggetto non a caso dell’unica progettualità di unificazione perseguita apertamente da Mosca nello spazio qui considerato.
Anche nel Caucaso la situazione presenta una serie di dinamicità. Mosca è qui storicamente il garante della sicurezza dell’Armenia (paese dove vanta le sue uniche basi militari nella regione ciscaucasica dopo il ritiro dalla Georgia), ma le cose sono talmente cambiate dopo la recente riacquisizione del controllo azero sull’Alto Karabach da avere prodotto un disallineamento senza precedenti tra l’attuale gruppo dirigente di Erevan e il Cremlino. Un ulteriore fattore di novità sta nella crescita di influenza che la Turchia proietta nell’area in forza, soprattutto, dell’importante partenariato che ha stabilito con Baku. Venendo, infine, ai cinque “Stan”, la novità più vistosa sta senza dubbio nell’impressionante ascesa economica della Cina, dinamica che ha da qualche tempo elevato Pechino al rango di primo partner commerciale dei cinque Paesi in questione (con un interscambio complessivo stimato in oltre novanta miliardi di dollari). E ciò senza contare i consessi multilaterali avviati da Pechino con i paesi in parola e i progetti infrastrutturali di vasto respiro promossi da capitali cinesi nella regione. Appare insomma palese che la Russia non ha più nell’Asia Centrale ex-sovietica il proprio incontrastato “giardino di casa” (pur conservandovi tuttora posizioni tutt’altro che trascurabili).
La fase attuale sembra evidenziare con riferimento allo spazio post-sovietico almeno tre grandi novità.
La prima consiste nella crescita delle ambizioni del Cremlino. Se un tempo quest’ultimo si limitava a inseguire una condizione di indiscussa primazia sull’area in questione, ora appare perseguirne tour court il controllo. Si tratta di una dinamica che risulta comprovata già dall’evoluzione della terminologia con cui Mosca fa riferimento a questo spazio: un tempo era “Estero Vicino” (espressione che riconosceva implicitamente, quanto meno sul piano formale, dignità statuale alle ex-Repubbliche sovietiche), mentre ora l’ex-URSS tende a coincidere con il pervasivo neo-concetto di “Mondo Russo”. Si disegna, insomma, un rapporto per lo meno “ambiguo” di Mosca con i confini nazionali all’interno della macro-regione e prende di conseguenza corpo una pretesa egemonica territoriale su porzioni di quest’ultima.
Una seconda novità, in parte anticipata da quanto è stato già detto, risiede nella capacità di influenza che attori esterni sono andati per la prima volta evidenziando nello spazio post-sovietico. I casi più significativi sono quelli dell’Unione europea nella sub-regione occidentale, della Turchia nel Caucaso e della Cina nell’Asia Centrale. Il rapporto con la Cina sembra, nella fase attuale, quello più facilmente gestibile da parte russa. Non vi sono, ad esempio, indizi che Pechino miri a sostituirsi a Mosca come security provider dei cinque “Stan”. E d’altra parte il forte allineamento tra i due paesi, ineguagliato dalla metà degli anni Cinquanta, è un valore che nessuna delle due leadership ritiene utile mettere a repentaglio.
Il terzo e ultimo elemento di novità sta nella messa in discussione, per la prima volta, dell’Organizzazione del Trattato di sicurezza Collettiva (una delle due aggregazioni multilaterali regionali – unitamente all’Unione Economica Eurasiatica – a guida russa) da parte di uno Stato membro: si tratta, nel caso specifico, dell’Armenia, che – scottata dal mancato sostegno russo sulla questione dell’Alto Karabach – ha preannunciato la volontà di uscire dall’Organizzazione.
Quale può essere, in conclusione, il futuro dello spazio post-sovietico? Due aspetti meritano, tra gli altri, considerazione.
Da un lato, Mosca sembra andare verso lo stabilimento di rapporti privilegiati con un numero ristretto di paesi che ritiene suoi utili “pivot” nelle tre subregioni. La Bielorussia, l’Azerbaigian e l’Uzbekistan hanno buone chances di rivelarsi tali. Se sulla Bielorussia non occorre spendere troppe parole, più interessante è il caso dell’Azerbaigian, Paese che Mosca in verità non ha mai trascurato neppure in passato, anche se il sostegno all’Armenia condizionava il profilo delle relazioni bilaterali. Ora un consolidamento del rapporto con Baku potrebbe presentare, da un’ottica russa, la duplice utilità di limitare l’influenza di Ankara nell’area e di imporre qualche condizionamento alla politica energetica azera. In Asia Centrale, infine, il Cremlino appare determinato a stringere un forte rapporto strategico con l’Uzbekistan, che considera regionalmente emergente per la sua centralità geografica, il suo ingente serbatoio di risorse umane e la forza del suo strumento militare. Il fatto che successivamente alla sua rielezione alla carica presidenziale Putin si sia recato in visita ufficiale, dopo Pechino e Minsk, proprio a Tashkent appare più di un’indicazione al riguardo.
Dall’altro lato, l’intero spazio post-sovietico esibisce un potenziale di conflittualità che Mosca non sembra più in grado di gestire/governare. Fino a pochi mesi fa erano addirittura tre i conflitti in atto nel complesso della macro-regione (guerra russo-ucraina, contenzioso armeno-azero e scontri di frontiera tra Tagikistan e Kyrgyzstan). Al di là delle difficoltà di un’azione di controllo russo, la situazione segnala il rischio di una disintegrazione poco controllata, se non violenta, di uno spazio geografico in apparenza sfuggito ai drammi che avevano ad esempio connotato la dissoluzione della Federazione Jugoslava.
Rimane in ogni caso indiscutibile che un arretramento significativo di posizioni nello spazio post-sovietico – oggi possibile – sarebbe interpretato dalla dirigenza russa come una fortissima sconfitta strategica, ipotesi contro la quale il Cremlino appare disposto a fare uso di tutto il potenziale dissuasivo di cui dispone.