Giovanni Cadioli
RTDA, Dipartimento di Scienze Politiche, Giuridiche e Studi Internazionali, Università degli Studi di Padova.
Le immagini delle lunghe colonne di carri armati russi ridotti a scheletri di metallo contorto hanno fatto il giro del mondo, accompagnate da video di droni ucraini da poche centinaia di euro che distruggevano veicoli militari avanzati di Mosca.
All’apparire sul campo di battaglia dei cosiddetti mercenari della Wagner — una compagnia militare tutt’altro che “privata” e in realtà strettamente legata all’intelligence militare russa, il GRU — l’allora Comandante in capo delle forze armate ucraine, Valerij Zalužnyj, aveva dichiarato: “Abbiamo distrutto l’esercito professionale russo, ora è il momento di distruggere quello amatoriale” [1]. Oggi, due anni dopo, le forze ucraine sono sulla difensiva su tutti i fronti, e Zalužnyj vive in un dorato esilio a Londra, dove ricopre il ruolo di ambasciatore dopo un aperto scontro con il Presidente Volodymyr Zelens’kyj sulla controffensiva ucraina del 2023. Quest’ultima, rivelatasi un costosissimo fallimento, ha spianato la strada all’attuale avanzata russa. E Zalužnyj afferma ora che gli arsenali occidentali non siano in grado di sostenere il confronto con il complesso militare-industriale russo [2].
Già nel 2022, quando la Russia subiva sconfitte militari devastanti, su un altro fronte il Cremlino stava costruendo le basi per una serie di vittorie decisive. Grazie ad esse, oggi Mosca sta vincendo la guerra economica: la produzione bellica russa ha registrato aumenti vertiginosi e, nonostante i ripetuti annunci occidentali che gli arsenali russi fossero ormai esauriti, Mosca ha costantemente rifornito le proprie truppe meglio di quanto l’intera NATO sia riuscita a fare con l’Ucraina. Il totale fallimento delle sanzioni occidentali, che avrebbero dovuto paralizzare l’economia di guerra russa, ha inoltre giocato un ruolo cruciale.
Come è stato possibile? In breve, la Russia ha adottato un modello economico basato sul controllo statale e sull’espansione del comparto militare-industriale, il Cremlino e i suoi alleati non rispettano le regole del commercio internazionale su cui si basano anche le sanzioni e Mosca ha anche sfruttato l’appetito dell’industria occidentale per vendite facili.
Questa transizione è stata agevolata da fattori strutturali e congiunturali. Nonostante la “terapia shock” adottata negli anni ’90 dal Presidente El’cin fosse volta a trasformare la Russia in un’economia di mercato, tale obiettivo non è mai stato pienamente raggiunto. Mentre negli anni ’90 il PIL russo crollava del 40% e un’ondata di eccesso di mortalità causava 3,4 milioni di decessi in più rispetto alle previsioni, ebbero luogo le privatizzazioni [3]. Furono effettuate attraverso il sistema dei voucher nei primi anni ’90 e successivamente, a metà decennio, svendendo il patrimonio industriale statale, così che El’cin ottenesse i fondi necessari per la campagna presidenziale del 1996. Le basi per un capitalismo di stato clientelare e cleptocratico erano già poste. Invece di una classe imprenditoriale emersero gli “oligarchi”, super-ricchi con profonde connessioni politiche [4]. Vladimir Putin, arrivato al potere, corresse quelle che considerava eccessive concessioni politiche agli oligarchi, ricentralizzando il potere e rinazionalizzando l’industria degli idrocarburi. La democrazia gestita, la cleptocrazia e la corruzione, già diffuse nella Russia di El’cin, si intensificarono ulteriormente sotto Putin [5].
Il capitalismo di stato e clientelare russo ha reso indistinguibile il confine tra proprietà privata e attività semplicemente “affidate” a privati, con l’implicito avvertimento che, in caso di necessità, lo Stato avrebbe preteso cieca obbedienza. Secondo alcuni esperti, la dimensione dell’economia statale russa era del 30-32% tra il 2005 e il 2010, mentre altri hanno stimato una quota del 40-50% a partire dal 2008-2009 [6].
A queste caratteristiche strutturali si sono aggiunte circostanze contingenti. Fin dalle prime sanzioni occidentali imposte per l’annessione della Crimea, il comparto della difesa russo ha ampliato la sua influenza, rimpiazzando i contratti interrotti con aziende occidentali. Nel 2015, si stimava che le imprese statali contribuissero per il 30% al PIL russo, mentre che il contributo totale del settore pubblico fosse vicino al 70%, raddoppiando rispetto al 2005. Secondo dati ufficiali del 2018, le imprese statali rappresentavano il 60% del PIL russo, e il Fondo Monetario Internazionale ha calcolato che gli appalti pubblici, esclusi quelli per attrezzature militari, costituissero il 28,5% del PIL nel periodo 2015-2018 [7].
La pandemia di COVID-19 e la conseguente recessione globale hanno ulteriormente favorito il ritorno del controllo statale sull’economia. Già nel biennio 2020-2021, il Cremlino ha introdotto prezzi fissi per numerosi beni di consumo essenziali, ampliando così il proprio margine di intervento nell’allocazione delle risorse verso altri settori [8].
Nell’ottobre 2021, Putin ha dichiarato che “l’attuale modello di capitalismo […] il “capitalismo selvaggio […] ha fatto il suo corso” [9]. Due mesi dopo, Denis V. Manturov, ministro russo dell’Industria e del Commercio, affermava: “L’economia pianificata non mi fa paura” [10].
Poi è arrivata l’invasione dell’Ucraina, con cui Mosca ha sfidato apertamente quello che percepiva come un ordine internazionale liberale frammentato e debole. La Russia non ha reagito alla presunta violazione di promesse mai ufficializzate sulla non espansione della NATO verso est, né a prospettive improbabili di adesione immediata di Georgia e Ucraina all’Alleanza Atlantica (praticamente nulle dopo la guerra russo-georgiana del 2008 e il conflitto russo-ucraino del 2014-2015). La Russia ha invece agito contro l’Occidente, scatenando la battaglia per quello che un articolo celebrativo della vittoria mai verificatasi a fine febbraio 2022 chiamava un “nuovo mondo [che] sarà costruito da tutte le civiltà e i centri di potere, naturalmente insieme all’Occidente (unito o meno) – ma non alle sue condizioni e non secondo le sue regole” [11].
Anche se l’Ucraina fosse caduta rapidamente, è probabile che il Cremlino avrebbe comunque accelerato la militarizzazione dell’economia per aumentare le proprie capacità offensive e difensive. La mancata vittoria lampo ha però reso la militarizzazione una questione di sopravvivenza.
Il Cremlino ha così intensificato il controllo sui prezzi, mobilitato la forza lavoro industriale, centralizzato ulteriormente le istituzioni politico-economiche e nazionalizzato un numero crescente di imprese. Prezzi fissi sono stati imposti sui prodotti della metallurgia, dell’industria mineraria, dei fertilizzanti e beni correlati [12]. Tra la metà e la fine del 2022, il complesso militare-industriale ha iniziato a operare senza sosta, con turni di lavoro obbligatori e senza diritto di appello [13]. Il 21 ottobre 2022, Putin ha istituito un Consiglio di coordinamento ipercentralizzato, guidato dal Primo Ministro e composto dai massimi funzionari, per garantire un controllo ancora più stretto sull’economia e sullo sforzo bellico [14].
È quindi seguita una vasta campagna di nazionalizzazione. Oltre alle imprese occidentali che lasciavano il paese e quelle di proprietà ucraina, un numero crescente di aziende russe è passato sotto il controllo del Cremlino [15]. Tra il 2023 e il 2024, lo Stato russo ha acquisito 15 grandi industrie della difesa, per un valore di 3,6 miliardi di dollari [16]. Sempre più spesso, i tribunali russi hanno giustificato queste nazionalizzazioni sostenendo che molte privatizzazioni degli anni ’90 fossero illegali o fraudolente, un argomento che di fatto consente al Cremlino di espandere senza limiti la sua campagna di rinazionalizzazione [17]. Dal marzo 2022 al marzo 2024, il governo ha rilevato 180 imprese per un valore complessivo stimato tra 11,5 e 15 miliardi di dollari [18].
All’inizio del 2023, Alexander Bastrykin, presidente del Comitato Investigativo e stretto collaboratore di Putin, ha dichiarato: “Stiamo parlando essenzialmente di sicurezza economica in condizioni di guerra. Il passo successivo è la nazionalizzazione dei principali settori della nostra economia” [19].
Queste politiche, unite alla visione economica ormai dominante al Cremlino, hanno reso la spesa militare il fulcro dell’economia russa. Nel periodo 2019-2021, la Russia destinava tra i 44,1 e i 48,5 miliardi di dollari all’esercito (circa il 14-16,5% del bilancio federale e il 3-4% del PIL). Nel 2022, la spesa militare è salita a 81,7 miliardi di dollari, con un aumento del 76% rispetto agli anni precedenti. Tuttavia, alcuni esperti suggeriscono che le spese coperte da segreto di Stato, legate alla guerra, gonfino ulteriormente questi numeri: il costo totale delle spese militari per il 2022 potrebbe ammontare a 124,5 miliardi di dollari [20]. Complessivamente, la guerra è costata all’economia russa quasi 10.000 miliardi di rubli, pari a un terzo della spesa statale o al 6,6% del PIL [21]. La crescita economica russa è trainata principalmente dalla produzione bellica. Nel luglio 2023, la produzione di navi e aerei e quella di veicoli industriali è cresciuta rispettivamente del 67% e del 46% rispetto al 2022. Anche la produzione di computer e prodotti ottici/elettronici ha registrato un incremento del 43% [22]. Tra gennaio e aprile 2024, la produzione industriale complessiva è aumentata del 5,2%, grazie soprattutto al comparto militare [23]. La spesa statale per il 2024 è prevista a 401 miliardi di dollari, con un incremento del 26,2% rispetto al 2023, e la difesa continuerà ad assorbire circa il 6% del PIL [24].
Tuttavia, questa economia di guerra è in difficoltà nel trovare manodopera sufficiente. Nel settembre 2024, il tasso di disoccupazione russo era sceso al 2,6%, un livello ben al di sotto di quello considerato ottimale (circa il 4%), costringendo il sistema a pescare nella disoccupazione strutturale [25]. Il risultato è un’economia surriscaldata, con picchi di inflazione che mantengono alti i tassi di interesse e riducono gli investimenti [26]. Il Cremlino non ha però alternative: la spesa militare non può essere ridotta finché il conflitto prosegue. Esercito e settore della difesa competono quindi per attrarre giovani, offrendo salari elevati per i soldati a contratto e numerosi benefici per i lavoratori. Questi includono alloggi a prezzi calmierati, linee di credito agevolate, incentivi per trasferirsi con le famiglie in aree strategiche, oltre a coperture di welfare offerte dalle fabbriche, comprensive di assistenza sanitaria, supporto educativo per i figli e attività ricreative [27].
Nel frattempo, la Russia ha adottato anche altre misure per affrontare la carenza di soldati e operai. Decine di migliaia di truppe nordcoreane combattono ora a fianco delle divisioni russe, e potrebbero già essere operative anche in territorio ucraino. Alla fine di novembre, il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, ha dichiarato che “i migranti sono una necessità” per la Russia, sottolineando l’importanza di questa risorsa nel contesto economico e bellico attuale [28].
L’inflazione e il surriscaldamento dell’economia non sono però gli unici costi. Se la produzione bellica è in crescita, quella civile ha subito un forte contraccolpo, così come i consumi. Già nel 2022, il fatturato del commercio al dettaglio è diminuito del 6,7%. La quota dei consumi delle famiglie rispetto al PIL è scesa dal 49,2% del 2021 al 46,9%, con oltre 3.000 miliardi di rubli non spesi. Sebbene i salari reali siano diminuiti solo dell’1%, questa riduzione si spiega con l’incertezza economica che frena i consumatori e con il drastico calo della disponibilità di beni di consumo non alimentari: -12% a Mosca e San Pietroburgo, -8,5% negli Urali. La produzione automobilistica è crollata del 50% rispetto ai livelli prebellici, mentre la produzione di veicoli militari ha recuperato rapidamente nel 2023, superando i livelli del 2021 [29].
La difesa ha monopolizzato investimenti e creazione di nuovi posti di lavoro, sottraendo risorse alla produzione civile. Nell’aviazione civile, ad esempio, la carenza di sensori è diventata critica nel 2022. Dmitry Khoruzhik, direttore generale di Aviasystems, ha descritto l’industria come “sotto stress a causa degli ordini della difesa statale” [30].
In definitiva, la crescita economica trainata dalla spesa militare non si traduce in prosperità generale. Come ha osservato l’economista Sergei Khestanov: “Se il complesso militare-industriale produce un razzo costoso, lo lancia e lo guarda esplodere da qualche parte, il PIL cresce magnificamente. Ma quanto beneficia l’economia civile di questo processo?” [31]
Tuttavia, alcune categorie di popolazione stanno traendo vantaggi dalla guerra. I militari ricevono salari elevati, sussidi per le famiglie in caso di morte in azione e accesso prioritario ai servizi, anche se ci sono casi in cui i benefici vengono negati dichiarando i soldati “dispersi” piuttosto che “caduti in azione” [32]. I lavoratori del complesso militare-industriale, che conta oltre 830.000 impiegati, hanno beneficiato di salari più alti e di ampi programmi di welfare aziendale, alimentando un crescente sostegno della classe operaia per Putin [33].
A livello produttivo, i successi russi sul fronte economico sono evidenti. Alla fine del 2023, Mosca produceva 200 carri armati all’anno, un numero superiore rispetto al periodo prebellico [34]. Nel 2024, la produzione di munizioni è aumentata del 150%, mentre quella di componenti di artiglieria ha registrato un incredibile +2.100% rispetto all’anno precedente [35]. Con 3 milioni di proiettili all’anno, la Russia surclassa la capacità di produzione combinata di Europa e Stati Uniti [36].
Dopo che le aspettative di un rapido esaurimento degli arsenali russi nel 2022 si erano rivelate infondate, nel marzo 2023 l’intelligence militare lituana aveva stimato che Mosca disponesse di risorse belliche sufficienti per combattere fino ai primi del 2025 [37]. Un anno dopo, gli esperti hanno rivisto questa previsione, ammettendo che gli arsenali russi potrebbero sostenere lo sforzo bellico fino al 2026-2027, senza considerare i potenziali rinforzi in droni, missili, munizioni, lanciarazzi e cannoni che la Russia potrebbe ricevere da Iran e Corea del Nord [38].
A questi risultati ha contribuito in modo decisivo la capacità della Russia di aggirare le sanzioni internazionali. Cruciale in questo contesto è stato il sostegno di Cina e India, oltre che di paesi come Asia centrale, Georgia, Turchia e, indirettamente, di molte imprese occidentali.
La Russia ha continuato a vendere petrolio, in particolare a Cina e India, a prezzi ben superiori al limite di 60 dollari al barile imposto dall’Occidente [39]. Questo è stato possibile grazie a compagnie di trasporto e assicurazione, anche occidentali, che hanno falsificato i prezzi di vendita, ad esempio aumentando artificialmente i costi di trasporto nei documenti [40]. In molti casi, alla Russia è bastato presentare documenti chiaramente falsi a compagnie di assicurazione e trasporto, le quali legalmente non sono obbligate a verificarne l’autenticità [41]. Il petrolio russo è poi trasportato da enormi flotte “nere” e “grigie”, comprendenti migliaia di navi, che manipolano licenze e registrazioni, i dati di navigazione e proprietà e addirittura navigano con i servizi di localizzazione spenti [42].
Mosca ha inoltre sostenuto la sua campagna militare attraverso l’importazione di beni fondamentali da paesi amici, inclusi componenti ufficialmente soggetti a sanzioni occidentali, spesso prodotti in Occidente stesso. La Cina, ad esempio, ha esportato in Russia grandi quantità di camion e scavatori, strumenti essenziali per la costruzione della linea difensiva che ha fermato la controffensiva ucraina. Nel 2021, la Russia non importava alcun trattore non agricolo con motori a combustione interna a pistoni, mentre nel 2022 e 2023 ne ha acquistati 48.000 [43]. Questi veicoli sono stati anche una fonte di pezzi di ricambio per la produzione di mezzi militari in Russia, che è stata possibile solo grazie al fatto che le importazioni russe di cuscinetti a sfera dalla Cina hanno registrato nel 2023 un incremento del 345% rispetto al 2021 [44]. Inoltre, la maggior parte dei chip avanzati utilizzati in missili, droni e munizioni di precisione russi, insieme a macchinari o pezzi necessari per produrli, proviene dalla Cina: nel 2023, l’88% dei chip e il 70% dei macchinari avanzati importati dalla Russia erano di origine cinese [45].
Ulteriori quantitativi di questi beni arrivano in Russia dalla Cina anche passando attraverso l’Asia centrale. Tra il 2021 e il 2022, le importazioni del Kirghizistan dalla Cina sono aumentate del 300%, mentre le esportazioni verso la Russia sono cresciute del 250% [46]. Ad esempio, le esportazioni di cuscinetti a sfera dalla Cina al Kirghizistan sono aumentate del 2.550% nello stesso periodo, una crescita difficilmente spiegabile se non con la loro successiva rivendita a Mosca [47].
Il Kirghizistan non si limita però a vendere alla Russia beni di origine cinese. Nel 2023, il Kirghizistan ha aumentato del 5.500% le importazioni di veicoli e componenti tecnici dalla Germania, destinati in gran parte alla Russia [48]. Questo dimostra come, spesso inconsapevolmente ma non sempre, beni occidentali continuino a sostenere la macchina bellica russa [49]. La conferma arriva dall’analisi di 27 tra i più moderni armamenti russi, tra cui missili, sistemi di comunicazione e armi per la guerra elettronica, nei quali sono stati trovati oltre 450 componenti non russi, provenienti in buona parte da Stati Uniti ed Europa [50].
L’economia russa, dunque, è ben lontana dal crollo [51]. Dopo una contrazione del PIL dell’1–2% nel 2022, il 2023 ha registrato una crescita del 3,6%, proseguita con un incremento stimato del 3,5–4% nel 2024 [52]. Per il 2025, la crescita dovrebbe rallentare al 1,3–1,5%, ma la Banca Centrale Russa considera questo rallentamento un ritorno a tassi di crescita più sostenibili [53]. L’inflazione, prevista al 6,5–7,0% nel 2024, dovrebbe scendere al 4,0–4,5% nel 2025 [54]. Il rapporto debito/PIL della Russia si attestava, nel primo trimestre del 2024, a un contenuto 14,6% [55].
In sostanza, l’economia russa, pur colpita dalle sanzioni, è stata rilanciata grazie a un massiccio intervento statale a favore del settore della difesa. La facilità con la quale la Russia ha eluso le sanzioni le hanno poi permesso di salvaguardare gli introiti provenienti dal commercio degli idrocarburi e di rifornirsi di quanto necessitava per il complesso militare-industriale. Putin, al prezzo di un crollo dei consumi e di un equilibrio macroeconomico tutt’altro che stabile, ha finora raggiunto l’obiettivo di garantire alla Russia la capacità di sostenere per anni spese militari pari al 6–7% del PIL e spese belliche complessive vicine al 10% del PIL [56].
La militarizzazione dell’economia e della società russe non è però soltanto una risposta immediata alle esigenze del conflitto, ma appare anche funzionale a un obiettivo di lungo termine che il Cremlino sembra considerare: la creazione di un esercito permanente di massa sul modello sovietico, che riporterebbe così il continente europeo a una situazione simile a quella della Guerra Fredda. [57].
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