Fuga dalla realtà. Un colloquio con Alexander Rodnyansky

Marta Allevato

Guardare al cinema come uno specchio in cui si riflettono i profondi cambiamenti che tre anni di guerra stanno producendo in Russia e Ucraina è un esercizio che viene naturale ad Alexander Rodnyansky. Celebre produttore cinematografico, originario di Kiev, ha costruito la sua carriera a Mosca, conquistando diversi premi internazionali, ma anche gli strali delle autorità.

“In Russia ormai prevale il fantasy, in Ucraina invece è l’opposto e si fanno molti documentari, opere legate alla stretta attualità; non a caso, il primo film ucraino a vincere un Oscar è stato l’anno scorso il documentario ‘Mariupol’”, racconta Rodnyansky in un’intervista all’AGI.

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La lente del cinema è quella che usa anche nel suo libro, uscito a fine 2024: ‘Loveless. La Russia di Putin in nove film’ (pubblicato in russo da Meduza).

Nel volume ripercorre la sua carriera e analizza la vita politica e culturale della Russia dal 2000 a oggi per trovare una risposta alla domanda che tormenta il mondo dal 24 febbraio 2022: come e’ potuto accadere?

“In Russia, tutti i temi legati alla reale situazione nel Paese sono di fatto banditi”, racconta al telefono mentre si trova in Egitto sul set, “non si possono fare film sul fatto che ci sia una guerra e che non piaccia a tutti, non si può parlare delle sfide e dei problemi sociali ed economici”.

In generale il cinema russo di oggi rifugge la realtà: “Si fanno commedie o film basati sulla mitologia nazionale. Il pubblico non vuole vedere sullo schermo il mondo in cui vive ogni giorno”. La situazione in Ucraina è l’opposto: “A Mosca si aprono ristoranti e la gente si diverte. A Kiev ci sono bombardamenti, persone che vanno in guerra, tornano invalide. In Russia ci sono soldi anche per il cinema, mentre in Ucraina i film si possono fare solo con l’aiuto di partner stranieri”.

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A ottobre scorso, un tribunale di Mosca lo ha condannato in contumacia a otto anni e mezzo di carcere per “diffusione di fake news” sull’esercito. Rodnyansky – che dice di non riconoscere l’autorità della giustizia russa – è convinto che la decisione dei giudici “abbia lo scopo di instillare più paura nella comunità cinematografica russa e impedirle di criticare pubblicamente l’ingiusta guerra in Ucraina e Vladimir Putin. Decine dei migliori scrittori e musicisti russi sono stati condannati per questo prima di me: perché si vogliono mettere a tacere le voci contrarie alla guerra”. Dopo sodalizi con alcuni dei più celebri registi russi contemporanei – tra cui Andrey Zvjagintsev, Fyodor Bondarchuk e Kantemir Balagov – e aver lavorato muovendosi in quella zona grigia in cui prima della guerra il Cremlino permetteva agli artisti di oscillare sul confine tra propaganda e denuncia, Rodnyansky ha scritto un libro con l’obiettivo di raccontare la Russia dell’era Putin in nove film e altrettanti punti di vista, tutti indispensabili per capire il Paese che ha mosso guerra a un popolo ritenuto fratello.

“Il capitolo sul film ‘La nona compagnia’ (Bondarchuk, 2005), racconta dell’intervento sovietico in Afghanistan, la sconfitta nella Guerra Fredda, il crollo dell’Urss, un evento che in Ucraina fu percepito come una liberazione, ma che in Russia fu un vero trauma”, sottolinea Rodnyansky. “Il capitolo su ‘Stalingrad’ (Bondarchuk, 2013) è incentrato sul culto della vittoria nella Seconda Guerra Mondiale, diventato pietra angolare dell’ideologia di Putin”, spiega il produttore facendo poi notare che “a differenza dei registi sovietici, che avevano combattuto in prima persona e che, quindi, ritenevano inaccettabile la guerra, i nuovi registi sono dei militaristi”.

“La guerra è stata normalizzata, è vista come legittimo proseguimento della politica, un ascensore sociale per i giovani e uno strumento per raggiungere gli interessi nazionali”. Ma per Rodnyansky, i film che meglio descrivono la vita in Russia di questi ultimi 20 anni, sono quelli del regista siberiano Zvyagintsev (già Leone d’Oro a Venezia e vincitore di un Golden Globe): “Il suo ‘Elena’ (2011) racconta il modello su cui è costruita la società russa nei primi 10 anni del potere di Putin; ‘Leviathan’ (2014), invece, rappresenta l’unione del potere temporale e spirituale in un unico organismo che prende il controllo totale sulla società e la vita privata dell’individuo e poi ‘Loveless’ (2017), che dà il titolo al libro, si incentra sulla mancanza di empatia nella società russa, l’incapacità di aiutare il prossimo e la mancanza di strumenti della società civile che permettano di correggere il sistema politico”.

“La Russia è un Paese che non riesce a liberarsi delle sue malattie secolari e della tragedia della sua storia imperiale. Ci siamo illusi, io per primo, che il Paese potesse avere uno sviluppo in senso europeo e democratico, che sarebbe diventato non come l’Italia, ma magari simile alla Polonia”, ammette il produttore. “La Russia, invece, è tornata indietro verso quello che è rimasto dell’Urss e dell’Impero: ipocrisia, repressione, guerre aggressive”. Per questa trasformazione, si rammarica, “bisognava distruggere alcune delle istituzioni chiave del passato sovietico e i loro eredi: non è cambiata la mentalità imperialista, l’economia si è sviluppata sulla corruzione, le differenza sociale, la delazione, l’inganno”. Il controllo sulla produzione culturale è sempre stato importante per un regime, ma lo è diventato ancora di più dopo le proteste antigovernative di Piazza Bolotnaya (2011-2012) a Mosca, animate proprio dai giovani della classe media, i creativi e i liberi professionisti, la cui fedeltà Putin pensava di aver comprato col benessere e la crescita economica che aveva conquistato nei suoi primi due mandati.

“Da quel momento, il Cremlino ha preso con forza il controllo su questa sfera della società”, ricorda Rodnyansky, “ha iniziato un giro di vite sulle Ong che aiutavano diverse iniziative dal basso, chiuso i media indipendenti, messo sotto inchiesta e incarcerato rappresentanti della società civile e leader dell’opposizione creando un complesso sistema di controllo fatto da una parte di azioni per instillare paura e dall’altra di iniziative per comprare la lealtà di segmenti dell’elettorato come aumenti salariali, sussidi e simili. Il mix di questi fattori ha reso la società russa spaventata e silenziosa anche se molti intimamente non concordano con quanto sta accadendo”. Il caso dello stesso Rodnyansky è emblematico: “Da una parte, dopo l’invasione su vasta scala dell’Ucraina lo Stato russo ha triplicato gli investimenti nel cinema di propaganda e dall’altra, chi esprime come me opinioni critiche ottiene pene detentive”, dice.

Familiare con le stanze del potere, da ucraino Rodnyansky auspica comunque un compromesso per mettere fine alla guerra. “L’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca significa molto per i negoziati. Gli Usa sono il principale sostenitore dell’Ucraina, senza di loro non sarebbe riuscita a contrastare la Russia. Ora, un presidente americano che ritiene fondamentale negoziare e’ una condizione importante ed e’ chiaro che senza compromessi da tutte le parti un accordo non sarà possibile; dire quale possa essere il compromesso e’ difficile. Una cosa, pero’, mi e’ chiara: l’Ucraina non cedera’ mai sulla sua sovranita’ di Stato indipendente in grado di decidere il proprio futuro”.

(Per leggere la versione integrale dell’intervista, realizzata e pubblicata da Agi, vedi https://www.agi.it/estero/news/2025-02-13/guerra-russia-ucriana-intervista-regista-rodnyansky-29997813/)